la pergamena

  Rivista Letteraria - Literary Review
    virtuale

» Classici latini e greci
(Classics)

Alessia Ambrosini (a cura di) - LUCREZIO E LA FELICITÀ

Tito Lucrezio Caro vive in piena crisi delle istituzioni repubblicane, nella prima metà del primo secolo a.C., periodo in cui - a seguito dell'intensificarsi delle lotte personali - il potere non si identifica più con la respublica, ma si polverizza, divenendo prerogativa di quei gruppi politici che ambiscono a diventare essi stessi respublica.
La reazione degli intellettuali alla crisi - in realtà non solo istituzionale, ma anche morale e civile - è duplice: impegno politico pieno o totale disimpegno.
Lucrezio, poeta epicureista, non può che optare per la seconda strada.
La dottrina epicurea trova in questi tempi particolarmente travagliati l'humus ideale per poter fiorire a Roma. Ed in effetti il verbo di Epicuro è il vero soggetto del De rerum natura, il cui fine, peraltro dichiarato da Lucrezio, è quello di indicare l'unica via di salvezza possibile per gli uomini.
La via consisterebbe nel prender coscienza della realtà delle cose, eliminare - attraverso la conoscenza - tutte le superstizioni che, in quanto sovrastruttura, offuscano la verità ed impediscono il raggiungimento della saggezza, della felicità, della atarassia, del piacere inteso come assenza di ogni dolore. Solo attraverso la conoscenza si può sperare di trovare la securitas, la serenità tanto agognata.
Superstizione è non soltanto la religio - e dunque la paura degli dei, della morte e dell'aldilà - ma soprattutto la cecità intellettuale e morale, che induce gli uomini ad affannarsi tanto. Questo loro affaticarsi per brama di ricchezze ed onori, opprime in realtà la vita - e non la solleva, come invece erroneamente si ritiene.
I versi 1053-1075 (liber tertius) del De rerum natura, che proponiamo, sviluppano appunto tale tema, e possono considerarsi a buon diritto il cuore non solo del poema, ma di tutto il pensiero lucreziano.

De rerum natura - liber tertius - vv. 1053/1075

Si possent homines, proinde ac sentire videntur
pondus inesse animo quod se gravitate fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
tanta mali tamquam moles in pectore constet,
haud ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper
commutare locum quasi onus deponere possit.
Exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque revertit,
quippe foris nilo melius qui sentiat esse.
Currit agens mannos ad villam praecipitanter,
auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque revisit.
Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,
effugere haud potis est, ingratius haeret et odit
propterea, morbi quia causam non tenet aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque relictis
naturam primum studeat cognoscere rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis
aetas, post mortem quae restat cumque manenda.

Traduzione in lingua italiana

Se gli uomini, come sentono nell'animo quel peso che con la sua gravezza li opprime, potessero sapere da quali cause abbia origine e perché tale macigno di affanni si addensi nel loro petto, certamente avrebbero una vita migliore.
E così li vediamo non sapere ciascuno cosa voglia per sé, cambiare senza posa sede, pensando di poter scaricare in tal modo quel peso.
Esce spesso dal suo grande palazzo, quegli che è annoiato delle sue stanze, ma subito vi ritorna, accorgendosi che fuori non v'è nulla di meglio.
Quest'altro corre spingendo i suoi veloci puledri a precipizio verso la villa di campagna, come se stesse bruciando; ma già sulla porta sbadiglia: cade in un sonno profondo quasi a cercar l'oblio, oppure torna in gran fretta a rivedere la città.
In questo modo ciascuno cerca di fuggire se stesso, ma, come accade, non può sfuggire a quell' "io", al quale resta attaccato a malincuore e che odia, perché, malato, non vede la causa della sua malattia. Se la vedesse, accantonate tutte le altre cose, si darebbe innanzitutto allo studio della natura, la quale anche dopo la nostra morte - per l'eternità - persiste, insieme all'eternità dello stato di morte.




» Torna all' Home Page