la pergamena

  Rivista Letteraria - Literary Review
    virtuale

» Narrativa
(Fiction)

Anna Battista - La Verità nello Specchio

Pedofilia: oggi la chiamano così, la condannano e ne cercano i colpevoli dietro milioni di schermi dai mille colori, computer sparsi dovunque nel mondo. Ma quella che c'era tra noi non era pedofilia. Lui non era un pedofilo: tra noi c'era una profonda attrazione sessuale e chimica, chimica soprattutto. Ci siamo amati alla follia e il mondo intero ha conosciuto le nostre fantasie e visioni, raccontate dalla sua penna, firmate con quello pseudonimo.
Ci siamo conosciuti quel lontano 25 aprile, lui aveva le mani inguantate e scoprii solo in seguito che quella morbida pelle nascondeva le mani tinte di nero di chi praticava una primitiva arte della fotografia. Mamma era cordiale con lui, ma non più di tanto, per via della sua classe sociale. A me invece non importava nulla, mi piaceva il suo sguardo e il suo sorriso, il fatto che tenesse sempre gli occhi addosso a me e mi facesse sentire importante. Amava fotografare noi bambini, o meglio, noi bambine, spesso nude e scriverci lunghe lettere. Ci raccontava sempre storie in cambio di baci e io adoravo sedere accanto a lui sul divano della nostra casa. Di me amava la mia carnagione bianca e la mia pelle liscia, i miei capelli sottili, mentre odiava le donne brutte come quella del dipinto di Quinten Massys, che poi ispirò il disegno di Tenniel. Era sempre tanto gentile, soprattutto quando organizzava dei picnic come in quel lontano giugno a Nuneham o in quel fatidico 4 luglio a Godstow, quando abbiamo preso quel particolare squisito tè.
Lui, il mio adorato, arrivava sempre con cestini pieni di dolci e con una teiera, poi si saliva in barca e, cullati dall'Isis, ascoltavamo rapite le storie che ci raccontava. Io, Ina ed Edith, le mie sorelle, eravamo sempre perse nelle sue fantasticherie, ma tra me e lui c'era un feeling particolare, lui sapeva di potersi fidare di me. E' per questo che i dolci che dava a me, o il tè che mi faceva bere erano diversi da quelli degli altri. Nessuno, tranne me conosce la verità. I suoi infusi erano estratti di digitalis purpurea o di datura stramonium, piante allucinogene che spesso Tenniel era costretto a fare parte del suo disegno dietro richiesta insistente del reverendo. Spesso portava con sé una specie di funghi tritati, avvolti in piccoli quadratini di carta. Durante l'epoca Vittoriana spesso gli adulti davano a noi bambini estratti di oppio per farci addormentare, per non farci essere vivaci, ma lui no, lui non mi avrebbe mai dato semplice oppio. Amava i suoi estratti strampalati e quei funghi tritati e fu lui a iniziarmi a quest'arte.
Aveva letto un libro una volta, The Seven Sisters Of Sleep, attirato dal titolo: lui aveva sette sorelle e soffriva di insonnia, credeva quindi di potere trovare un rimedio al suo male, ma invece trovò innumerevoli ricette che lo ispirarono ai suoi esperimenti sulle droghe allucinogene. Appena dopo che mi conobbe si procurò dell'amanita muscaria tritata in gran quantità, il fungo psicoattivo che produce visioni di piccole fanciulle, in genere fate, usato dagli sciamani messicani per procurarsi le loro visioni.
L'amanita muscaria gli procurò visioni bellissime, di un mondo colorato e popolato da tante piccole fate, munite di ali e nude, che volavano da un fiore all'altro, il paese ideale, per chi le bambine le amava così tanto. Poi un giorno, in gran segreto, decidemmo di fare un grande passo insieme: le leggi Vittoriane non ci avrebbero mai permesso di avere seri rapporti sessuali a causa della mia giovane età, così quel giorno il reverendo portò con sé un po' di amanita muscaria. Eravamo soli in casa, non ricordo per quale strana coincidenza, e dopo avere ingerito la polvere del fungo, il nostro viaggio cominciò.
Insieme ci ritrovammo in una terra meravigliosa, dai colori brillanti, dove i fiori parlavano, i pezzi degli scacchi si animavano e un intero mazzo di carte fungeva da esercito ad una regina svirgolata. Quando tornammo in noi ci ritrovammo nel salotto di casa mia circondati dalle solite cose di tutti i giorni, un mazzo di fiori recisi in un vaso, gli scacchi di papà sul tavolino con accanto un mazzo di carte. Tornammo più volte in quella terra, alcune volte con un suo amico che di mestiere faceva il cappellaio, ed era un po' fuori di zucca in quanto respirava ogni giorno grosse quantità di mercurio usato per trattare il feltro dei suoi cappelli. Con lui ci divertimmo troppo e ci ritrovammo ad un tè con un ghiro narcotizzato, vittima dei troppi oppiacei in uso in quel periodo. Una volta abbiamo persino incontrato un bruco su un fungo magico, fumava un narghilè pieno di una mistura d'oppio. Le visioni si susseguivano sempre veloci: vedevamo Dinah, la mia gattina colorarsi di rosa e fucsia e sorridere e poi sorridere e sorridere ancora; potevamo vedere un uovo trasformarsi in un buffo e panciuto signore seduto su un muretto. Abbiamo anche incontrato una volta due fratelli che ballavano e si abbracciavano, antico preludio di quella che oggi chiamano la generazione dell'Ecstasy.
Il reverendo raccontava poi le storie tratte dalle avventure da noi vissute ai nostri amici. Le mie sorelle rimanevano sempre a bocca aperta, quelli erano i nostri "felici giorni d'estate" che mai ritorneranno. Le storie il reverendo le raccontava mettendo sempre me, la sua amata al centro, rendendomi protagonista delle sue personali visioni, o di quelle che io gli raccontavo di avere avuto.
Le nostre visioni illustrate da John Tenniel e pubblicate da Andrew Macmillan uscirono nel 1865, venendo definite come "un antidoto alla tristezza", ma il reverendo conosceva ben altri antidoti.
Nello stesso anno lo rividi, mentre ero con la mia governante, io nel fiore della mia gioventù e mi fece male sapere che non lo vedevo dal Dicembre di due anni prima. I miei genitori mi proibirono di vedere il reverendo perché temevano che le sue intenzioni non rimanessero poi tanto caste una volta che io fossi cresciuta. C'è chi dice che mi abbiano proibito di vederlo perché voleva chiedere la mia mano una volta maggiorenne, ma non è così.
Il reverendo raccontò la verità sui nostri rapporti chimici nel suo diario, come se fosse stato un antenato di Alexander Shulgin, annotando formule ed effetti dati dalle droghe. Purtroppo nessuno lesse mai quelle pagine di amore, visioni e allucinazioni, perché il nipote del reverendo tagliò con un rasoio le preziose pagine del diario. Parte dei suoi scritti fu invece gettata nel fuoco una volta morto, e nessuno conobbe mai la verità.
Nella sua vita amò tante bambine, ma nessuna quanto me.
Amò Polly Terry, amò Ethel e Julia Arnold, quest'ultima futura madre di Aldous Huxley, al quale lei raccontò di certo delle droghe del reverendo, droghe che poi ispirarono Huxley a scrivere The Doors Of Perception.
Amò Isa Bowman e amò Dolly, a cui confessò in una lettera di avere preparato delle fette di verdure essiccate con della roba chimica sopra.
Quando smisi di vederlo non ebbi più la possibilità di raggiungere il suo mondo incantato. So che lui fu in seguito più spesso colpito da crisi di panico, fitte d'ansia e mal di testa, tipiche conseguenze di chi fa troppo uso di acidi.
Il reverendo morì il 14 gennaio 1898, dopo la sua morte furono trovate nei suoi appartamenti 2 scatole piene di droghe e di tipici attrezzi per sintetizzare e preparare polveri.
Nel 1926 io vendetti la copia originale di Alice In Wonderland che Dodo, come io lo chiamavo, mi aveva dato. Poi morii anch'io, lasciando il mio corpo in questa terra. Il mio spirito invece dimora negli specchi di tutto il mondo: vago negli specchi dei laboratori e ispiro farmacologi a sintetizzare nuove droghe allucinogene, vago negli specchi su cui bianche linee d'eroina vengono tagliate, vago nei nitrati d'argento e negli spessi vetri antiproiettile degli studi di registrazione. Ispirai io i Primal Scream a cantare "Hallucinogens can open me or untie me / I drift in inner space / I find a higher state of grace, in my mind / I'm beautiful..."
Lui mi aveva insegnato che "se limiti le azioni della tua vita a cose per le quali nessuno potrà mai criticarti, non combinerai mai niente".
Lui mi chiamava il suo "Piacere".
Lui si chiamava Charles Lutwidge Dodgson, più conosciuto come Lewis Carroll.
Io mi chiamo Alice Pleasance Liddell e vivo nello specchio.




» Torna all' Home Page