la pergamena

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(Fiction)

Tony "Merc" Mobily - PER SEMPRE

Quella che sto per raccontare, e' una strana storia.
Ora sono qui, steso nel mio studio, con le sculture che mi circondano quasi osservando il mio corpo al loro cospetto.
E' strano, sentirsi spiato da una propria opera e' come esserlo da una parte di se stessi.
Non puoi nascondere nulla.
Sa tutto.
Sai tutto.

Mi hanno narrato, quando ero bambino, la storia del piccolo ragazzo che vide una scultura in due fasi diverse: quando era ancora da completare, e -qualche mese dopo- quando era pronta, come viva, in tutto il suo splendore.
Il bimbo disse al grande scultore: -Diavolo! Come facevi a sapere che quella donna fosse li' dentro?
Lo scultore sorrise.
Questa storia mi ha affascinato.
Ma sono diverso. Non e' cosi', per me.
Quando scolpisco un blocco di marmo, non sento di liberare il mio soggetto.
E' una specie di magia.
Non sento di liberare ma di creare, fisicamente, ogni sensazione, ogni muscolo, ogni tendine della mia scultura.
Così, sono il Dio del mio mondo.

Ho passato gran parte della mio tempo in questo studio.
E' enorme, ma all'inizio usavo solo un piccolo angolo, che mio padre mi aveva concesso.
Io e lui non ci parlavamo mai.
Eravamo come due sconosciuti, costretti a dividere gli stessi spazi.
Vivevo solo con lui; aveva un mobilificio, trattava mobili antichi.
Ero piuttosto piccolo, avevo si e no quindici anni, quando un signore, interessato probabilmente ai mobili, aveva notato una piccola statua di marmo su un antico pianoforte in esposizione.
Se ne era innamorato.
Rappresentava una donna, un angelo, in piedi, con le enormi ali in parte -ma solo in parte- posate sulla schiena.
I capelli lunghi, che suggerivano un colore chiaro, scendevano morbidi, e le braccia coprivano i seni e il pube.
Era uno splendore di purezza, candore e fierezza.
Sul volto, un leggero sorriso, che sembrava dire "Sono qui, fiera, felice di essere, per sempre".
Aveva chiesto a mio padre l'autore di quello che a parere suo era un capolavoro.
Mio padre gli aveva detto che l'autore ero io, suo figlio, di quindici anni, e l' uomo non aveva aggiunto altro.
Era tornato il pomeriggio.
E, da allora, fu con me ogni pomeriggio, per insegnarmi l'arte della scultura.
Mi chiese, come scambio simbolico, di poter tenere la piccola statua nella sua casa fino al giorno della sua morte.
Si chiamava Nicolai, e divenne il mio maestro.

Col tempo, divenne nei miei confronti una specie di padre.
C'era qualcosa, in me, che amava furiosamente.
Mi ci affezionai moltissimo, subito.
Veniva sempre, ogni giorno, quando tornavo da scuola. E mi insegnava, mi dava consigli, mi suggeriva tecniche e ritmi di lavoro.
Divenne una specie di secondo padre.
Per un anno, fu sempre con me, ogni pomeriggio.
Non manco' praticamente mai.
Poi, mio padre morì.
E piangevo, piangevo disperato contro me stesso. Forse perche', in realta', odiavo mio padre, odiavo il suo silenzio, ed odiavo me stesso che in realta' ero insensibile alla sua morte.

Sgomberai il mobilificio, e smisi di andare a scuola.
Scolpivo, scolpivo e basta. Non esisteva altro, per me.
Nicolai sapeva che così era sbagliato, ma non poteva fare nulla per cambiare le cose.
La mia voglia di creare era cio' che piu' amavo, e la mia prigione.

Rimanere assorto a creare qualcosa mi faceva entrare in una specie di mondo diverso da quello reale, in cui il tempo perdeva di significato.
Imparavo, e imparando cambiavo.
Scolpire significava rifugiarmi dal mondo dal quale mi sentivo sopraffatto, e crearne uno in cui il dolore, la gioia, la solitudine, assumevano un significato diverso.
Solo lavorando mi sentivo veramente me stesso.
Soltanto scolpendo, la mia vera personalita' si esaltava e respirava una boccata di ossigeno dopo tempi infiniti nei quali soffocava.
Era tutto, per me.
In cio' che creavo c'era la mia personalita', la mia espressione, la mia vita, forse.
Portavo me stesso su un livello superiore rispetto a chi mi era intorno.
Il pensiero della morte mi spaventava soltanto per il fatto che non avrei mai piu' provato quelle sensazioni.
Non avrei mai piu' creato.
Sarei stato un Dio morto, e con me tutto cio' che grazie a me era stato.
Se stavo male, ed ero costretto a letto, non facevo altro che immaginare e sviluppare nella mia mente figure e soggetti che avrei voluto realizzare una volta in piedi.
E la malattia diventava un mostro che si nutriva del mio tempo.
Sentivo la mancanza di qualcosa, in realta'.
Ma ero sono mai riuscito a colmare quel vuoto, ma in certi casi non pensare e' meglio.
Avrei voluto che quella vita fosse continuata per sempre.

Nicolai, sei anni dopo, mori'.
Il vecchio pianoforte era rimasto ed ora, dopo sette anni di assenza, c'era anche la statua, che Nicolai aveva avuto nella sua casa per sette immensi anni.
Attraversai un periodo tremendo.
Ero solo, e sentivo solo silenzio, che non era silenzio.
Mi penetrava col suo sottile fruscio fin dentro il cervello, prepotente, cieco, impietoso.
Avevo ventidue anni.
Da quel momento era immobile, freddo, in una tomba, a regalare il suo corpo alla stessa terra che lo aveva generato.
Le statue sono immortali, non invecchiano, la loro pelle non degenera mai, i loro occhi non si chiudono.
La loro quiete, la calma della loro natura ibernata, immutabile, e' la loro immortalita'.
E' la loro condanna essere e non essere.
Ma Nicolai non era una statua, gli uomini non sono per sempre, e lui era morto.
Non sopportavo l'idea.
Quando era morto mio padre, era stato diverso.
Ora ero solo, in un mondo che non conoscevo.
Mi sedetti al pianoforte, ne sfiorai leggermente i tasti.
Suono cupo, stridulo, muto, quasi.
Posai gli occhi sull'angelo.
Mai nessuno, nella mia vita.
Solo statue, statue di marmo immobili.
Stupende donne-angelo nelle piu' straordinarie pose di liberta'. Chiuse nella loro atroce, non ribelle rigidita', che ingigantisce la loro bellezza.
Anni prima, avevo smesso di andare a scuola.
Avevo interrotto ogni rapporto umano con chi avevo avuto intorno.
Ora ero solo.
Il mio maestro era morto.
Una parte di me era morta insieme a lui.

Subito dopo la sua morte, passai due giorni senza ne' mangiare ne' bere.
Steso sul letto, pensavo ferocemente e subito mi spegnevo come una lampadina che emana il suo ultimo sprazzo di vita prima di bruciarsi.
Continuamente.
Non bruciavo mai.
Stavo impazzendo.
Poi, lentamente, mi ripresi.

Un giorno, dopo forse un anno o forse un mese che Nicolai era morto, decisi di ridonare vita alla piccola statua della quale si era innamorato anni prima.
Ora, doveva essere piu' grande, piu' maestosa, piu' splendente che mai.
Presi in mano il piccolo angelo, lo fissai.
Era vivo. Non poteva essere diversamente, era vivo e mi guardava.
Sorridendo.
Pensai a Nicolai.
Piansi.
Quella statua: l'inizio di tutto.
Forse, la fine di qualcosa.
La girai in tutti i versi, stampando in mente ogni piu' piccolo dettaglio.
Aprii le mani.
Cadde.
La osservai mentre raggiungeva il pavimento, forse troppo lentamente.
Non si fece a meta'. Non resto' mutilata.
Si frantumo' in un milione di piccoli pezzi. La sua anima, forse, era volata via, libera da quel piccolo -gelido- corpo.
Forse, con Nicolai, pensai.
No, non poteva essere.
La realta' non e' mai poetica quanto la fantasia.

Mi misi immediatamente al lavoro.
C'era un blocco di marmo che mi sembrava abbastanza adatto. Non perfetto, forse troppo fino, ma adatto.
Passai due giorni a pensare, e basta.
Avevo memorizzato tutto di quella piccola gemma, ed avevo paura di dimenticarla.

Lavorai giorno e notte.
A volte mi fermavo, dormivo, mangiavo e ricominciavo.
Non avevo piu' il senso della giornata.
Dovevo scolpire, ogni momento, ogni attimo.
Le ali, presenti ma non spiegate, i capelli, come seta, e il corpo, incominciarono lentamente ad esistere.
Poi, il viso.
Stupendo.
Non ho idea di quanto tempo impiegai.
Ma finii in fretta.
Era il mio capolavoro.
Perfetta.
Era la mia donna, la mia fortuna.
Aveva le proporzioni esatte di un essere umano.
Quando pensai di aver finito, andai a dormire per la prima volta senza il pensiero di dover finire.
Andai a letto, e dormii tranquillo.
Mi svegliai un' eternita' dopo.

Quando mi svegliai, osservai di nuovo la mia creazione.
Lo splendore della piccola statua era moltiplicato ora per tutta la sua nuova, fantastica grandezza.
Non avevo conosciuto donna, nella mia vita.
Non avevo mai amato nessuno, neanche me stesso. Odiavo il mio aspetto, il mio corpo.
Lei, era la perfezione.
Ogni angolo del suo corpo aquistava una sublime dolcezza.
La sua gelida compiacenza esaltava il mio spirito.
Immaginavo la sua immutabilita', il suo esistere per me -ed in me- al di sopra delle parti, al di sopra del mondo.
Era la mia Dea.
Ne ero innamorato.
Divenne, in quei momenti, tutto per me.
Dimenticai di essere l'artefice. Probabilmente, non lo ero. Probabilmente era l'esplosione di tutti i miei desideri, di tutte le mie sofferenze, di tutta la mia vita mai vissuta ma mai disprezzata.
Era forte come il marmo di cui era fatta, e debole, pronta a frantumarsi o mutilarsi da un momento all'altro.
E, soprattutto, era li'.
Non potevo fare a meno di guardarla.
Il fatto che altri occhi avrebbero potuto posarsi su di lei, avrebbero potuto desiderarla, mi faceva impazzire.
Accarezzai il suo corpo con le mani nude.
Sembro' intenso, morbido, freddo e unico.
Avrei fatto qualunque cosa perche' smettesse di essere una statua.
Avrei fatto qualunque cosa perche' diventasse una persona vera, dalla quale avrei potuto farmi abbracciare, farmi amare.
Piansi, piansi perche' mai qualcosa di mia concezione avrebbe potuto esistere. Mai avrebbe davvero avuto la vita.
Gli avrei dato la mia, se avessi potuto.
Ero come uscito da un incubo.
Vedevo in lei la luce dell'uscita, della speranza.
Sarei stato una persona diversa, per lei.
Perche' era tutto.
Pensai all'amore.
Nessuno lo soddisfa davvero, perche' l'uomo, abituato al tiepidume della vita quotidiana, ne esce bruciato.
Mi ero seduto a terra. Posai una guancia sul letto, continuando a guardarla.
Stavo bruciando anch'io.
Mi addormentai a terra, osservando il suo volto.

Dopo un tempo inquantificabile, aprii gli occhi.
Ero a terra, vicino alla base della mia opera d'arte. Avevo la schiena a pezzi.
Tutto cio' che vedevo era offuscato, odiavo quella sensazione.
Vedere tutto in modo confuso, irrazionale, e' tipico degli uomini.
Alzai gli occhi verso la Bellezza.
Non c'era piu'.
Richiusi gli occhi, convinto che appena li avessi riaperti, la avrei trovata, li', dove io le avevo dato la vita.
Allucinazioni notturne, solo allucinazioni notturne.

Aprii gli occhi.
E fu buio.
Li richiusi piano, impaurito.
E fu luce.

Forse stavo impazzendo.
Forse stavo morendo, e morendo mi furono donati sprazzi di lucida pazzia.
Pensai di alzarmi.
Forse, solo forse, lo feci davvero.
La statua non c'era. Nulla c'era.
C'ero solo io, chiuso in una stanza.
La piccola stanza divenne una bara.
La piccola bara divenne una tomba.
Pensai di essere morto, durante il sonno, affianco alla mia statua.
Ma non ero steso.
Non ero in posizione di riposo, quiete, con le gambe e le braccia distese.
Il mio corpo era offuscatamente ricurvo in una posizione improbabile.
I miei tendini vacillavano insieme alla mia schiena.
Non riuscivo a muovermi.
Non so come, riuscivo a vedere la mia schiena. Sembrava quella di un gobbo.
Lo era, forse.
Qualcuno era vicino a me, ma io non potevo vedere nulla.
Sentivo il suo respiro.
Mi convinsi che era una donna.
Mi convinsi che era lei.
Tentai di girare la testa, ma mi resi conto di non avere nessun controllo sui muscoli del mio collo.
Potevo vedere solo indietro, la mia schiena.
Sentivo che il suo corpo toccava il mio, ma non mi rendevo conto in che modo.
Mi sentivo un infame intruglio di organi viscidi tenuti insieme dalla mia immobilita'.
Non volevo essere toccato, non cosi'. Non volevo che lei si accorgesse di quale cosa immonda fossi.
Sentii un prurito atroce. Non sulla schiena, ma...
Ma dentro.
Notai cosa stava succedendo.
La mia pelle aveva qualcosa di strano. Proprio al centro della schiena, c'era come qualcosa che tentava di uscire.
Quando capii, probabilmente gli occhi mi uscirono dalle orbite.
Era un verme, che veniva fuori viscido e ripugnante.
Avrei voluto muovermi, avrei voluto trovare l'uscita, avrei voluto liberarmi e liberarla...
Svenni nella mia bara.

Ebbi paura.
Dimenticai, di colpo, la bara.
Ero steso. Sentivo polvere, intorno a me.
E la polvere divenne sabbia.
E la sabbia divenne deserto.
E il deserto divenne paura.
Uno strano sole si accese. Un sole che bruciava senza scaldare.
Intorno a me, dune.
In lontananza, una donna che camminava.
Era lei.
Mi alzai, non so perche' fui sorpreso di riuscirci.
Incominciai a correre ma, mi accorsi, inutile.
Le dune, intorno a me, cambiavano sempre.
Il paesaggio era sempre lo stesso, e sempre diverso.
Non capivo tutti i cambiamenti.
Erano troppo veloci, e frenetici.
Correvo lo stesso, alla ricerca del mio desiderio.
Non mi persi mai, ne piansi.
Non potevo raggiungerla, lo sapevo.
La rincorsi lo stesso.
Caddi, e svenni, smettendo di respirare.

Quando mi risvegliai, avevo dimenticato del deserto.
Non ero in nessun posto.
Intorno a me c'era tutto e niente, profondita' e piattezza, colore e buio.
Ero in paradiso, o all'inferno.
Mi stupii di riuscire a respirare.
E la vidi.
Non correva, non era lontano da me, e non mi abbracciava.
Era precisamente, geometricamente di fronte a me, ma non come io l'avevo scolpita.
Lei era viva.
Sorrideva, mostrando i precisi denti che io non le avevo mai scolpito.
Quando tentai di avvicinarmi, lei si spavento'.
Volevo toccarla, lei si ritrasse.
Non capi.
E parlo'.
"Se mi toccherai, nel momento in cui il contatto tra i nostri corpi finira', io non esisteo' piu'".
"Se non mi toccherai, potrai guardarmi per sempre, e per sempre una statua restero'."
Così disse.
Mi tese la mano.
Sorrise.
Mi strinse.
Non pensai a nient'altro.
Non pensai al bene, non pensai al male, non pensai alla storia.
Solo a noi due, che in quel momento eravamo li', stretti.
Una brezza leggera e calda ruppe il silenzio.
Il vento che soffia puo' essere la peggiore turtura e la piu' bella musica.
Baciandola, non odore, non sapore. Solo lei, che mi accarezzava dolce e mi invadeva rompendo le barriere del mondo.
Non aveva nome. Non era mai nata.
Non per questo, non esisteva.
I corpi si fusero insieme, e sentii tutta la mia vita pulsare di colpo, risvegliata dalla voglia di essere e rimanere, per sempre in quell'attimo inafferrabile.
Io ero lei.
Lei era me.
Il mondo era concentrato nelle nostre esistenze.
C'era il bene -l'amore- ed il male -il tempo.
Insieme, come sempre, per sempre.
La dolce condanna alla quale eravamo destinati ci univa in un legame unico, e immortale.
Pensai che sarei rimasto per sempre li', con lei, un quel posto nel nostro universo.
Pensai che la avrei tenuta per sempre tra le mie braccia, e mai avrei smesso di stringerle la mano.
Pensai che l'amore puo' sopravvivere a tutto.
Mentre pensavo, mi addormentai.

Aprii gli occhi.
Ero una persona identica e diversa.
Mi voltai.
Non piu' la statua, solo frammenti.
Ancora una volta.
Mi distesi.
E morii.




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