la pergamena

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(Fiction)

Ivano Mugnaini - DESAPARECIDOS

Desaparecidos.
Scomparsi.
E' così che li chiamano. Anzi, è così che li chiamiamo anche noi.
La violenza del potere inizia dalle parole. Le addenta, le riduce in brandelli, le avvelena, e ce le dà in pasto.
E noi lecchiamo la cintola, quieti e diligenti. Buttiamo giù tutto, boccone dono boccone, e non ci accorgiamo che il loro trucco, la trappola arrugginita di sempre, si cela proprio nella parte più morbida e tiepida dei pastone: la speranza. Sì, l'astuzia più raffinata e collaudata dei potere consiste proprio nella capacità di far sì che ogni giorno siano le nostre narici ad annusare frenetiche l'aria alla ricerca della carne flaccida e narcotizzante dell'illusione.
Al di là di un certo limite, un passo oltre il confine estremo dell'assurdità disumana, l'ossigeno vitale della speranza si disperde e si confonde con i vapori annichilenti dell'abisso della colpa.
Carlos non è scomparso.
E' morto.
Sì, mio Fratello è stato torturato e assassinato.
E' tutto molto semplice. lo bisbiglia l'aria ogni mattina quando apro le finestre, lo sussurra la polvere delle strade, lo urla il buio della notte.
Carlos è stato ucciso due anni fa. Eliminato.
Un pensiero pericoloso annegato nel sangue. Annegato, ma non dissolto. Il suo ricordo si siede ogni giorno davanti a me, e mi scruta, per ore. lo non so guardarlo in faccia, non sono capace di fissarlo negli occhi. Preferisco uccidere il tempo osservando le mie mani, bianche, pulite, senza neppure un minuscolo callo... rimirando le facce eternamente sorridenti dentro lo scatolone grigio eternamente acceso... oppure pensando che lui sia ancora vivo, e che non sia accaduto niente.
Anche il mondo, là fuori, la pensa così. Le massaie vestite di nero con tinuano a riempirsi le braccia di buste di nylon colme di pane, latte, sale e detersivi, e i bambini corrono e sghignazzano come sempre prendendo a calci un pallone che tra pochi anni sarà nero di barba appena spuntata e bianco della prima sigaretta, noia rotonda piena di rabbia compressa, e cuoio duro e screpolato di disoccupazione. E in?
lo guardo la vita dalla finestra, mi perdo nelle rughe e nelle smorfie dei visi, e seguo il ritmo cadenzato e immutabile dei passi, accompagnandolo con le note lente e languide dei a che mi risuona senza tregua nella testa.
E' la colonna sonora preferita della mia malinconia. Un disco rigato e consumato che non so e non voglio spegnere.
La mia musica non si stacca da me neppure quando scendo per strada e percorro vie di clacson e grida, per poi dissolvere l'eco dei miei passi nel ritmo dei niente, dentro vicoli lividi di silenzio. Un sorriso strano distende impercettibilmente gli angoli delle labbra.
Non potete leggere i miei pensieri, rifletto. Lo ripeto a me stesso sia quando fendo la calca immobile e distratta, sia quando incrocio un viandante solitario che mi sfreccia accanto un istante, poi sparisce, inglobato da altre strade. Non potete leggere i miei pensieri.
Già.
Sai che disgrazia.
Mi sento avvilito e offeso. Non sanno che si perdono. Rinunciano a cuor leggero al balbettío di parole sconnesse che martellano nella testa come macchine per cucire impazzite quando passo davanti a un drappello di soldati che sta coscienziosamente Fracassando le braccia e le costole all'uomo inerme segnalato dal delatore di turno, nascosto come un topo dietro le persiane.
Rinunciano alla trama fitta fitta di fili sottili e soffici di preghierine e Fatalistiche considerazioni con cui ricopro accuratamente il suolo rugoso e sterile di imprecazioni e bestemmie, quando attraverso un posto di blocco e vedo mani e fronti "sospette" incollate alla calce di un muro, e file di corpi, colpevoli di indossare camicie dei colore sbagliato, che vengono ripetutamente spintonati e rivoltati come calzini. Rinunciano alle nenie da bambini e alle filastrocche che canticchio, biascicandole tra le labbra assieme ad un sorriso chete e dolciastro, ogni volta che l'aria si spalanca come una ferita e le orecchie esplodono, colpite dal sibilo secco di fucilate inequivocabili che rimbalzano sui muri grigi di palazzotti sobri ed anonimi.
Davanti a me, al di là delle finestre dell'appartamento di fronte, solo una vecchietta rinsecchita che gira all'interno dei lindo salottino come un ericeto in gabbia. Assesta in continuazione con uno straccio bianco colpetti nervosi e sdegnati ad ogni granello di polvere che osa posarsi sul tavolinetto e sulle credenzine ricoperte di centrini ricamati.
La testa canuta dell'ordinatissima signora risponde agli scoppi ritmati delle pallottole piegandosi in avanti, di scatto, come una bambola di pezza colpita alla nuca da una bambina isterica e viziata.
Appena il silenzio riemerge dalla sua tana sotterranea, riallargando sulle strade e sulle case braccia esili e esitanti, l'anziana donna si placa, e riprende la sua immutabile danza tra i mobili. Negli occhi acquosi infossati tra le rughe non un'ombra di impazienza, di irritazione, o di fastidio. Niente di niente. Solo un soqghigno rannicchiato nei bordi biancastri della bocca. L'impronta atavica di accettazione e rassegnazione, il marchio secolare che il destino imprime sulle spalle chine e ricurve dei capi di bestiame domati e raccolti.
A volte mi capita di pensare che l'appartamento di fronte al mio in realtà non esiste. Le finestre pulite e lucidatissime sono specchi. E la vecchina dai capelli bianchi è una mia immagine riflessa: una strana foto di cui è venuto fuori solo una specie di negativo, con una piccola macchia di luce, una figurina opalescente che si muove senza sosta sullo sfondo nero e sfocato. Sì, sono io. li sogghigno è il mio, e il marchio me lo sento sulle spalle, ogni santo giorno, come un timbro rotondo da rinnovare in continuazione, senza minimamente modificarlo però.
Mercoledì mattina. E' giorno di libera uscita.
Bisogna provvedere all'approvvigionamento settimanale di viveri. Esco di casa, attraverso il portico, aggiro l'eterna pozzanghera centrale dal lato nord-ovest, metto il piede sulla pietra smossa dei selciato stando bene attento a trasferire tutto il peso dei corpo sull'altra gamba, e saluto Jorge.
L'enorme soriano, randagio con fissa dimora residente da tempo immemorabile nell'angolo meno illuminato dei portico, alza la testa. Per un istante al mio passaggio, apre un quarto della pupilla, e ricambia il mio sguardo d'intesa. li marciapiede che porta ai grandi magazzini ha un debole per me.
Depongo su di lui le suole delle scarpe con tale garbata lievità che quasi non se ne accorge; anzi, spesso è lui a invitarmi ad osare di più, e a chiedermi scusa per la sua ruvidezza. Anche la folla che scorre ai miei fianchi non si accorge della mia presenza.
Mi insinuo tra gambe e braccia mulinanti come l'alito di noia di una brezza istantanea si incunea tra le fauci spalancate di una sconfinata afa estiva. Anche oggi la fila di fronte alle casse si muove con la goffaggine e la lentezza di un pachiderma paralitico.
Sopporto sorridendo. Chino le spalle in avanti per far risaltare di meno la differenza di altezza tra me e la donna piccola e magra che ho di fronte, schiacciata ulteriormente al suolo da grappoli di borse e sporte di vimini.
Faccio mezzo passo indietro. Una gonna svolazzante ne approfitta e si inserisce tra me e l'esile signora che mi precede. La giovane proprietaria della gonna mi dribbla con estrema disinvoltura. Le pieghine della maglietta fucsia sono dritte, statiche, e perfettamente lineari, così come assolutamente immobili e quiete sono le guance e le estremità della pieghina rosa che ricopre i bianchissimi denti.
Sorrido, almeno io.
Sorrido di nuovo.
Lo sguardo è quello di un San Sebastiano che accoglie sereno un'ennesima freccina su un petto già irto di dardi sanguinanti. Solo le lentiggini dei viso si riscaldano, si animano e mi ronzano sulla pelle come sciami di rosse zanzare. Incuriosito dai vivacissimi insetti, il doloretto assopito in qualche grotta buia dello stomaco si risveglia, spalanca entrambi gli occhi, e viene fuori, all'aperto. E' un inquilino abusivo, ma non ho voglia di denunciare la sua presenza a qualche medico privo di fantasia. Mi ci sono quasi affezionato ormai.
Taglio il traguardo e pago, beato. Ripercorro il mio amico marciapiede, raggiungo il portico, e cerco con lo sguardo Jorge.
Strano, a quest'ora di solito si dedica alla toletta quotidiana. Lisciatura dei pelo. E invece oggi dorme. Mi avvicino a lui e lo sollevo leggermente. Oscilla tra le dita lieve e dinoccolato come un pupazzo con la molla rotta.
Il signore dell'ombra, custode della grande pozzanghera, e padrone chi versante del mio cuore esposto ai raggi della luna, se n'è andato.
Senza strepito e senza agitazione, in silenzio, senza disturbare i passanti.
Si è sdraiato comodo sui suo fianco preferito, ha respirato gli odori dei vicolo per l'ultima volta, ha sbadigliato a lungo in faccia alla morte, poi si è addormentato, a occhi aperti, guardandola fissa, senza sfida e senza rabbia, senza panico e senza orrore. Senza sconfitta.
In questo momento, mentre tengo sollevata la sua testa lieve e ciondolante con l'indice e il medio, sta guardando anche me. Mi dice qualcosa ora, lui che non ha mai voluto dirmi niente, se non di cercare di essere il più leggero possibile quando calpesto l'erba, l'asfalto e il cemento.
Guardo la mia faccia riflessa nelle sue pupille chiare e spalancate.
Guardo la mia faccia e la vedo, come non facevo da troppo tempo. Ho gli stessi lineamenti di Carlos. La stessa espressione, la stessa bocca, gli stessi occhi di mio fratello.
Quando eravamo ragazzi c'era sempre qualcuno che ci chiedeva se eravamo gemelli. E noi giù a ridere.
A volte ci scambiavamo perfino le ragazzine.
Chissà se riesco a fregare anche la vecchia megera che sta con Carlos adesso.
Domattina mi metto la camicia dei colore giusto e la vado a cercare.




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