la pergamena

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(Fiction)

Remo Rapino - UNA PICCOLA MORTE SUONANDO

Nascimur uno modo,
multis morimur.
Seneca retore,
Controversiae, 7,1,9.

Kurt Hahnke, vent'anni, Il 4 gennaio 1943, riuscì a suonare la Sonata per pianoforte n.23 In fa minore op.57 "Appassionata" di Ludwig Van Beethoven In una piazza di Stalingrado su un vecchio piano buttato in strada chissà come, mentre la gente moriva e lui stesso, Kurt Hahnke era li per morire. E suonò in modo incredibile, senza lasciarsi distrarre, tacitando grida e spari.
Al di là di quelle note nulla più esisteva né la guerra, né l'assedio, né la polvere, né la neve, né StalIngrado, né la Hitlerjugend, né l'occhio di un cecchino senza nome, freddo a far fuoco dal cielo.
Tutte queste cose, così reali fino ad allora, erano non più che nomi insostanziali. Solo il destino aleggiava nell'aria, chiara come uno specchio di ghiaccio, ed In questo si riflettevano le dita veloci sulla tastiera, il cuore e la musica che ne seguiva, il battito d'ali, Il canto ultimo dell'uccello ferito. L'assedio non è reale, così pensava In un angolo di mente Kurt Hahnke, l'assedio è una metafora delle nostre esistenze apparenti, solo che, spesso, ci mancano un pianoforte, la voglia o la capacità si suonarlo, perché non riusciamo più ad appartenerci, perché ètardi cominciare quando è ora di smettere. Kurt Hahnke suonava In modo sublime perché era l'ultima volta, perché sapeva, Improvvisamente, a vent'anni, della morte vicina, anonima, che sarebbe venuta dal cielo, dal freddo, dalla mano di un Ivan nascosto dietro una finestra senza vetri. Le mani sembravano grandi uccelli del nord sulla tastiera, In ogni tasto toccato verdeggiava un boscoso sentiero della Schwartzwald, di quelli che sviano all'improvviso tra l'erbe per poi apparire di nuovo e condurre I passi fino ad una radura di luce, dove avverti dentro un'immotivata felicità.

In quel presente minimo Kurt Hahnke si sentiva una piccola cosa confusa, vicina alla fine, tra mille cose confuse. Ma quando tutto è confuso sarebbe meglio cominciare ancor più dalla fine, ché questa ci porta ad apprezzare e comprendere quanto è umano davvero, comprese le sciocchezze che facciamo, e che pure, a volte, sono preferibili al niente o ad un'impossibile totalità.
La fine è la fine da qualunque punto si guardi, la fine è Il taglio dell'orizzonte che nessuna prospettiva modifica, la fine è senza aggettivi. D'altra parte cosa ne ricaviamo da una fine eroica se non la fine stessa. Nelle piccole cose c'è lo stesso che nelle grandi, come l'identico numero Infinito di punti si snoda sia nel breve segmento che nella retta di cui l'occhio non riesce a dar conto.
Ed lo, si disse Kurt Hahnke, sorridendo con lievità, sono una piccola cosa, che andrà con altre per non tornare. Eppure, guardando Indietro, provava una certa gratitudine per la sua vita, per i voli come per le cadute, per i silenzi come per i lunghi discorsi, per le parole dette o che avrebbe voluto dire.
Per questo, gli sospirò l'anima, vorrei essere io a congedarmi dalle cose e dagli altri, da quest'angolo di mondo. Per questo mi trovo a suonare ancora una volta, e vorrei farlo bene per poi noti farlo mai più.
Aveva, Kurt Hahnke, davanti agli occhi i suoi giorni, le attese e I piccoli passi, le Incomprensibili ansie, i desideri e i distacchi, ed avvertiva nella gola una calma pesante, assente e taciuta. Avrebbe voluto gridare lasciatemi andare per lamia strada, lasciatemi chiudere su entrambi i lati in una stanza senza porte, ho vent'anni e ho paura, sto solo suonando un piano per strada, sotto un cielo non mio, ma cosa potrei fare di meglio? Gli pareva d'essere seduto su una buca, dove non si poteva non palpitare. Guardava Il fumo salire dalle macerie e portare con sé i lamenti di anime spente, ed il tempo, quel tempo, lo viveva e considerava solo in quanto perso.
No, non era una bella cosa! Presto la buca sarà piena di neve, considerò Kurt Hahnke, ed il gelo si muoverà lento verso il cuore, non permetterà neanche di riflettere su quanto intorno ci danza.
La musica poteva, voleva confortare ogni dolore, ma questo era più grande della possibilità del conforto in quella piazza cinta di muri sbriciolati, di rimpianti messi all'asta, di gesti ultimi a mezz'aria tra la terra e il volo circolare dei corvi. Sotto Il grigio di cielo e di polvere avvertiva Kurt Hahnke la mancanza d'azzurro, e si sentiva malato, un bruscolo Inerme, brandello di nuvola e vento. Eppure proprio In quel luogo Irreale e terribilmente vero gli sembrava d'imparare molto di più, quasi avesse vissuto una vita di mille anni, che, di certo, non l'avrebbe reso meno fragile di quanto lo fosse In quel mucchio d'istanti. Kurt Hahnke, vent'anni, scivolando sui tasti, toccava l'equilibrio della propria fragilità, doveva solo Imparare a dimenticare, a non sperare, a trovare il punto In cui annientarsi.
Ma, non voleva nasconderselo, non si sentiva per niente preparato ad entrare nella sera e nella notte dei giorni, a saltare oltre la siepe. E poi come sarebbe stato? Non l'avrebbe mai saputo, non avrebbe mai potuto raccontarlo. Questa Impossibilità lo uccideva più del congedo finale. Era stato facile scriverlo agli altri, a Margarete prima di tutti, e convincerli di togliersi dalla testa ogni disinganno sulle probabilità di un ritorno, che appariva sempre più lontano In quella situazione, ché sarebbe stato inutile resistere al tramonto, ma, piuttosto, meglio, per tutti, assecondarlo, senza più cercare colpe, torti e ragioni di un destino che, proprio in quanto tale, andava al di là dei desideri dei singoli e di ogni presunta verità universale. Intanto gli amici del fronte lo salutavano e lo applaudivano, lo vedevano vestito da concerto, avvolto da luci soffuse e velluti rosso Pompei. Qualcuno vide una rosa gialla, languidamente assopita sul piano. Ognuno recitava la sua parte, svelando le bellezze minime dell'ora nell'immenso teatro del mondo. Stalingrado, in quell'ora, era Il mondo. Non avrebbe mai dimenticato quel grappolo di minuti. Di questa unica certezza si nutriva Kurt Hahnke, mentre considerava, pur nell'attImo breve di un lampo, la natura di quel luogo e Il carattere anomalo dell'uditorio.
Ma era poi così assurdo quanto stava accadendo nella sfera di quella generale follia?
Avrebbe voluto essere uno scrittore per descrivere, con le parole più vere, quelle che non restano chiuse nel libri, come quelle reclute sedessero attente, avvolte nei loro mantelli fangosi, con le sciarpe legate Intorno alla testa, le bocche aperte come bambini davanti ai dolci di Natale. Intanto si sparava, e si moriva da tutte le parti, ma quel cento occhi rimanevano fissi su quelle mani che andavano a volo di gabbiano, nessuno si faceva distrarre. Era questa, e solo questa, adesso la verità: stavano ascoltando Beethoven a Stalingrado, non c'era altro da chiedersi.
Kurt Hahnke, il ragazzo che era anche un soldato, suonò per ventiquattro minuti, Allegro assai, Andante con moto, Allegro ma non troppo.
Aspettò che l'ultima nota si allontanasse leggera verso occidente, quasi un timido addio per amori lontani, si alzò lentamente, esausto, per inchinarsi con elegante tristezza di fronte all'insolita platea, ma Il nuvolìo degli occhi lucidi non gli permetteva di vedere molto. Meglio così, pensò per l'ultima volta Kurt Hahnke, vent'anni, meglio la nebbia, meglio una visione Indistinta.
Tutto è più chiaro. Si piegò sulle ginocchia e col dito, stranamente caldo e dolce, scrisse qualcosa sulla neve fresca. L'Ivan nascosto lo senti pensare, lo vide scrivere ed aspettò che finisse, forse In nome di quella solidarietà che ogni morte, data o sofferta, reclama a diritto.
Poi una striscia di fuoco sottile tagliò l'aria e la piazza.
Kurt Hahnke, vent'anni, restò immobile sotto un cielo immobile.
Quelli che accorsero, gridando disperati Il suo nome, trovarono un volto sereno, lessero una frase a fatica: Aliquoties mortuus sum sed sic numquam!
Sono morto tante volte ma così mai?
Già, cosa ne ricaviamo da una fine eroica se non la fine stessa:
Kurt Hahnke, vent'anni, aveva inciso la sua sul bianco gelo della terra prima di uscire dalla festa come un ospite stanco.  




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